Su quelle navi da Palermo arrivava il jazz

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Su quelle navi da Palermo arrivava il jazz

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E quando sei convinto che quella musica americanissima non potrebbe provenire che da qualche buio scantinato a stelle e strisce, arriva l’Italia con qualche suo inaspettato genio. D’altronde dov’è che il Bel Paese non ha lasciato traccia, dalle trame culturali a quelle artistiche? Non c’è scampo: anche stavolta, la lunga storia di un genere musicale, il jazz, non risparmia la presenza di (più di) qualche italiano. Poteva trattarsi di un nostro connazionale, viaggiatore capitato per caso o per necessità, nel ruolo di innovatore o di ispiratore.

Dalle feste di paese a un movimento rivoluzionario

Possiamo dirlo: il jazz ha beneficiato del prezioso contributo dei Siciliani emigrati negli Stati Uniti. Non si tratta di una semplice influenza quella che arriva sulle navi da Palermo che approdarono in luoghi di fermento quali New Orleans, New York e (via terra) Chicago. Furono quei “musicisti da banda”, e in particolare i figli di emigrati, che da giovani si inserivano nelle bande cittadine, a cambiare il corso degli eventi e l’evoluzione della stessa musica nuova americana.

Nick La Rocca

Dixieland Jass Band One-Step, con Nick La Rocca alla trombetta e Tony Sbarbaro alla batteria

I musicisti provenienti d’oltreoceano incontravano negli States la “black music” fatta di danze e cori, antenata del moderno gospel. Gli afroamericani conoscevano poco le tinte orchestrali. La trombetta, ad esempio, uno degli “strumenti da banda” a fiato ben più squillante della tromba, era una novità da quelle parti. E mentre i neri recitavano in disparte la loro musica di ribellione, si inserivano tra questi gli italiani meridionali.

Sempre lei, madre di ogni ricchezza: l’integrazione

Anche loro di pelle scura (tanto che venivano naturalmente accostati agli africani), i siculi ingaggiarono una vera e propria corsa all’ultima innovazione. La lotta fatta di esperimenti sonori tra i proto-jazzisti italoamericani e gli afroamericani era iniziata. Sarà infatti dall’incontro fra la tradizione musicale della minoranza nera e quella siciliana che nascerà quella miscela esplosiva che prenderà il nome di “Jass”. I gospel, le marcette militari e i canti da lavoro fusi  con l’opera lirica e le reminiscenze arabe.

Il primo disco inciso nella storia del «jass»?

Registrato nel 1917 da Nick La Rocca (al secolo Domenico La Rocca), siciliano di seconda generazione nato a New Orleans, il disco Dixieland Jass Band One-Step del 1917 fu un successo con oltre un milione di copie vendute. Un boom enorme considerato che ai tempi non esisteva ancora quella strategia promozionale e la capacità di diffusione che conosciamo oggi oggi.

Livery Stable Blues

B-side Livery Stable Blues, Original Dixieland Jass Band, rilasciato il 7 marzo 1917 e considerato primo disco jazz

Da notare la dicitura Jass cambiata successivamente in Jazz, quella che conosciamo e utilizziamo oggi. Si tratta di una trasformazione obbligata, forse a causa dell’ilarità che suscitavano gli scherzi di quei ragazzi che strappando dai manifesti la lettera “J” lasciavano l’appellativo ass («culo» in inglese). Come tutte le novità, si prendeva in giro anche quella musica, forse non ancora del tutto compresa e presa sul serio. Questo episodio esilarante, alla luce delle “leggi anti-jazz” approvate negli States contro la musica libera, fa riflettere su quali difficoltà e contro quale corrente di pensiero andarono i musicisti di quel periodo di sperimentazione. I jazzisti erano in qualche modo visti come degli eretici alchimisti nel Medioevo.

I nomi americanizzati per “fare scena”

Togliendo la maschera (semmai ce ne fosse bisogno!) a qualche personaggio, partendo dai suoi dati anagrafici, si confermano le origini dei tantissimi artisti che spopolavano in diverse città statunitensi. Fa sorridere – ed anche riflettere – il tentativo di integrazione dei musicisti di origine italiana. Era attraverso la trasformazione del proprio nome o cognome che avveniva il camaleontico inserimento nella società e nella credibilità musicale. Negli Stati Uniti troviamo così nomi riadattati come Vincent Rose trasformazione da Vincenzo Cacioppo, Pete Rugolo al posto di Pietro Rugolo, Joe Venuti versione american di Giuseppe Venuti, giganti come Frankie Laine, creato ex novo da Francesco Paolo Lo Vecchio, e il grande Tony Scott, nome d’arte di Anthony Joseph Sciacca. E ce ne sono tanti altri che lasciarono un segno indelebile nel firmamento della musica del Novecento con il proprio nome tinto d’America. Non serve specificare alcun luogo di nascita, sarebbe superfluo. Tutta una schiera di musicisti di gran classe con un’innegabile eredità italiana, soprattutto meridionale.

Alcune note dolenti

Innegabili i riferimenti alla cosiddetta Mano Nera e a Cosa Nostra. Queste organizzazioni criminali praticavano estorsioni presso i quartieri abitati dagli italiani e dominavano incontrastate diversi settori, tra cui il contrabbando illegale di alcool e il giro delle “taverne” clandestine. E dove ancora? Sul business discografico. Qui le mani della criminalità coinvolgeranno direttamente molti artisti italo-americani, compresa una delle leggende del jazz, The Voice Frank Sinatra.

Il dimenticatoio americano

Lasciati in disparte anche dagli stessi studiosi ed esperti americani di musica, i jazzisti siciliani, o comunque di origine italiana meridionale, troveranno giustizia. Saranno i numerosi racconti che per fortuna continuano a passare tramite documentari, biografie e monografie scritte, che costituiranno le inequivocabili testimonianze di una storia musicale, quella del primo jazz, anche italiana. È probabile che rimarranno sorpresi i “non addetti ai lavori”, ma è evidente quanto quelle traversate oceaniche in partenza da Palermo abbiano influito sulla produzione del coloratissimo e denso affresco musicale del Jazz.

 

Su quelle navi da Palermo arrivava il jazz ultima modifica: 2019-05-31T17:04:59+02:00 da Daniele Monteleone

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