Una denominazione assai evocativa, tutta palermitana e (forse) tutta inesorabilmente legata al passato: Conca d’Oro. Quest’identificazione territoriale che richiama inevitabilmente Palermo e la Sicilia, ha goduto di larga diffusione durante l’amministrazione spagnola della città. Il nome, contrariamente a quanti lo credono introdotto già dagli Arabi, non risalirebbe oltre il XVI secolo, in cui lo si trova usato per la prima volta dagli scrittori per indicare la bella e ricca città di Palermo e il suo generoso territorio. “Conca d’Oro” resta oggi più adatto a vecchi riferimenti di una terra profondamente trasformatasi nel giro di mezzo secolo. Nei primi decenni del Novecento la sterminata distesa di quasi 100 chilometri quadrati era ancora popolata quasi esclusivamente da aranci, ulivi, mandorli, yucche e palme. Qualcosa (più di questo) è cambiato.
Che storia e che storie hanno cambiato la Conca palermitana?
All’inizio del Novecento, l’area verde aveva conservato la sua antica vocazione agricola. La vallata presentava infatti una distribuzione piuttosto ordinata di coltivazioni: vigneti a Pallavicino e Bonagia, uliveti a Tommaso Natale, San Lorenzo e Cardillo, agrumeti a Ciaculli, Bonagia e Falsomiele e colture erbacee a Romagnolo ed Acqua dei Corsari. Dall’alto la Conca sembrava distendersi – come venne definita dallo storico della geografia e cartografo tedesco Joseph Fischer – come un «enorme gabbiano» le ali del quale si estendevano da Est a Ovest, da Capo Mongerbino a Capo Gallo, gettandosi con la testa a Nord in direzione del mare.
È possibile ammirare nelle numerose panoramiche di Palermo, presenti in diversi libri, l’aspetto (colorato) della città. Nella maggior parte dei casi, si tratta di fotografie scattate dal versante di Monte Pellegrino che dà sul porto. Si potrà notare come sia ancora predominante alla metà del Novecento il verde oltre le distese di cemento che affollano il centro “allargato” palermitano.
Gli anni della distruzione della Conca d’Oro
Il 1960 fu il pieno del cosiddetto ‘sacco edilizio’ di Palermo, che avrebbe cancellato gran parte di quella ricchezza floreale, dalla Piana dei Colli a Bagheria, da Monreale a Ciaculli. Si trattò infatti di uno scempio ambientale e paesaggistico. La colata di cemento che negli anni Sessanta e Settanta cambiò per sempre il volto di Palermo è resa evidente dai numeri. La speculazione edilizia, solo fra il 1953 ed il 1966, fece aumentare del 125 per cento la superficie edilizia urbana. Difficile quantificare esattamente quanto venne poggiato sulla Conca: dati della Ripartizione Urbanistica del Comune indicano come 300 milioni i metri cubi di edifici residenziali edificati a Palermo dal dopoguerra sino agli anni Novanta.
Motivi ragionevoli…
Diverse ragioni vanno affiancate alla costruzione selvaggia del Dopoguerra. L’esigenza di recuperare i 70.000 vani del centro storico distrutti dai bombardamenti del 1943 ebbe la precedenza, ma non è tutto qui. Palermo, divenuta capitale di una importante e grande regione come la Sicilia, dovette accogliere uffici e tanti nuovi abitanti. Le periferie, e il “centro allargato”, dovevano accogliere la macchina burocratica che si avviava alla gestione cittadina e regionale. Nuovi palazzi costruiti nelle periferie accolsero l’ingente massa di siciliani che trovò lavoro proprio a Palermo.
…e motivi criminali
Ma a completare l’opera di devastazione e cemento furono i costruttori legati alle famiglie mafiose ed i politici corrotti. La distruzione della Conca d’Oro discende da quella mafia arrivata al potere e alle amministrazioni locali, a cominciare dal Comune. Per non parlare delle scandalose licenze edilizie (e abbattimenti eccellenti) concesse da – purtroppo per noi – famosi amministratori come Salvo Lima e Vito Ciancimino. I voti delle famiglie mafiose permisero a questa cancrena di mangiarsi letteralmente la capitale siciliana.
La Palermo perduta e la Palermo nelle nostre mani
Di quel paesaggio non rimane che il rimpianto a causa di una politica urbanistica scellerata che ha sfigurato uno dei fari del Mediterraneo. Il verde che giungeva fino alle pendici di Monte Pellegrino fu oggetto di lottizzazione per l’area degli impianti sportivi. La Piana dei Colli lasciò spazio alla vasta area lottizzata satellite del centrale viale Strasburgo. Quelle distese di agrumeti che si stagliavano oltre il centro storico e la Stazione Centrale hanno lasciato spazio alla costruzione della zona di Brancaccio. E si potrebbero elencare tutte le altre aree completamente coperte di cemento. Ma la memoria qui è utile non solo per piangersi addosso, ma anche per ritrovare forza nelle operazioni di valorizzazione ambientale e del verde cittadino. Quella Palermo è perduta, la nostra è sempre curabile.
In copertina “Palermo e Montepellegrino”, olio su tela, 1874, Francesco Lo Iacono.