Gennaio 1848: i moti di Palermo accendono l'Europa

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STORIA

Gennaio 1848: Palermo accende l’Europa

Inizio Rivolta Siciliana

La rivoluzione, il sangue, la vendetta violenta sugli oppressori, il sogno. Il moto palermitano del 12 gennaio 1848 è tutto questo e molto altro. Fu la scintilla che fece esplodere l’Europa in un quarantotto? Fu l’incipit da cui si arrivò di lì a pochi anni all’Unità d’Italia? Forse c’è molta più autonomia siciliana e meno “missione liberatrice europea” di quanto la storiografia vuole mettere in risalto. Certamente furono le notizie che arrivavano da Palermo a scatenare la cosiddetta «primavera dei popoli» dalla Calabria alla Campania, e oltralpe in Austria, Germania e Francia. Quell’anno le sollevazioni contro i regimi assolutisti, tornati più forti dopo il processo di Restaurazione, insanguinarono l’Europa come mai successo in tutto il resto dell’Ottocento.

Cosa significa la rivolta di Palermo?

Molti storici hanno collegato gli avvenimenti palermitani all’avvento del Risorgimento per la presenza, fra i fautori della rivoluzione palermitana, di protagonisti nella successiva lotta per l’Unità d’Italia. Fa riflettere però l’adozione “quarantottina” del tricolore con l’antico simbolo della Trinacria, un’icona che porta indietro fino ai Vespri Siciliani e ben oltre. Un intreccio che getta un velo di mistero sulla matrice unitaria e allo stesso tempo separatista della rivoluzione palermitana e siciliana del 1848.

Palermo e il difficile rapporto con i Borbone

Nel corso dell’Ottocento, in seguito alla Restaurazione, avevano avuto luogo dei violenti moti contro la dinastia Borbone a capo del Regno delle Due Sicilie, dai moti del 1820 fino a quelli del 1837, tutti derivati da richieste popolari in senso libertario. Il ripetuto rifiuto di concedere una nuova costituzione al Regno aveva generato malcontento anche nel ceto medio borghese e sul fronte economico l’Isola soffriva alcune annose decisioni dei Borboni. La politica economica liberista all’interno e protezionistica verso l’esterno impediva lo sviluppo dell’economia siciliana, favorendo maggiormente le industrie napoletane. Napoli era inoltre la sede reggia e questo rafforzava nei siciliani il sentimento rivoluzionario nei confronti di reali e amministratori locali – imposti dall’alto, in alcuni casi per combattere il clientelismo – sempre più legati a Napoli, sempre più “stranieri”.

Una lunga storia di repressione siciliana

Dal regno di Francesco I (1825) a quello di Ferdinando II (1830) la repressione violenta restò una costante che accrebbe il desiderio autonomista siciliano. Francesco non tentò neanche di avvicinarsi allo spirito costituzionalista che accendeva gli stimoli alla ribellione isolana, mantenendo un sistema repressivo ben collaudato. Proprio lui chiamò al ministero della Polizia in Sicilia Francesco Saverio Del Carretto, noto alle cronache per l’annientamento con «nera asprezza» degli insorti nei moti del Cilento del 1828, uno degli episodi più crudi della dinastia Borbone. Si legge infatti di teste mozzate esposte in pubblico, bombardamenti massicci su obiettivi civili di piccole località dove si rifugiavano talvolta i rivoltosi, processi sommari e condanne a morte lampo.

Borbone Sicilia
“La rivoluzione di Palermo nel 1820” – Ilustraciones de la obra :
Storia del Risorgimento italiano / il. Edoardo Matania – Milano Fratelli Treves, 1935

Il Regno di Ferdinando II si ricorda invece per tantissimi primati tecnici e militari, oltre che per le riforme di tipo fiscale ed economico volte ad alleggerire le tasse del settore agricolo e diminuire le spese della corte. Fece equiparare gli omicidi nei duelli a delitti comuni e aderì alla lega degli stati che volevano abolire la tratta degli schiavi neri. Concesse anche l’indulgenza agli imputati politici (ma non dei promotori delle insurrezioni) nel tentativo di calmare le spinte ribelli del popolo siciliano. Ma l’isolamento rimase la strategia internazionale principale e il mantenimento dell’equilibrio interno dovette essere portato avanti con la forza.

Morti per la libertà

Erano avvenuti diversi tumulti per l’Unità e per l’indipendenza siciliana prima del ’48 e restano innumerevoli le esecuzioni documentate. Vanno ricordati fra tutti i Fratelli Bandiera, Attilio ed Emilio, catturati nell’inutile tentativo di scatenare una nuova sommossa a Cosenza dopo che, pochi mesi prima, ne era stata sedata un’altra nel sangue. Traditi da un loro compagno, i Bandiera e gli altri verranno catturati e condannati a morte: urleranno «Viva l’Italia!» prima di essere trucidati dal plotone d’esecuzione.

Una serie di eventi porta a un “quarantotto”

Le idee liberali e democratiche che si diffondevano in quel periodo in tutta Italia, penetravano inesorabilmente anche nell’Isola dove andava per la maggiore un sogno leggermente discostato dalla Repubblica Italiana «una, libera, forte, indipendente da ogni supremazia straniera e morale» professata da Mazzini: si sperava infatti in una Sicilia indipendente e confederata agli altri Stati d’Italia. Il popolo più povero sperava nel miglioramento delle proprie condizioni, a partire dall’organizzazione del lavoro e dalla scomparsa dello sfruttamento. La borghesia puntava a obiettivi di libertà politica, su tutti il funzionamento di un sistema parlamentare che poteva rappresentare più interessi. I moderati e i reazionari erano invece spaventati dalla rivoluzione e dalle idee socialiste che minacciavano la sovversione dell’ordine al potere e l’attentato alla proprietà.

Una Sicilia autonoma?

La crisi economica degli anni ’40 dell’Ottocento, causata dai grandi investimenti del Regno borbonico nel settore ferroviario, diventa il trampolino di lancio per uno stravolgimento totale. Una particolare coincidenza di interessi fece confluire anche parte della aristocrazia e degli intellettuali nella causa rivoluzionaria: la Sicilia autonoma poteva ripartire contando sull’aiuto reciproco degli altri confederati italiani, chissà forse anche con l’aiuto di Francesi e Inglesi. Non andò proprio così.

È il 1848: «figli di Sicilia, ribellatevi!»

I volantini a firma di Francesco Bagnasco comparsi solamente pochi giorni prima della sommossa del 1848 esortavano così alla rivolta: «Siciliani! Il tempo delle preghiere inutilmente passò! Inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche dimostrazioni, Ferdinando tutto ha spezzato; e noi, popolo nato libero, ridotto fra le catene nella miseria, tarderemo ancora a riconquistare i legittimi diritti? All’armi, figli della Sicilia! La forza di tutti è onnipotente: l’unirsi dei popoli è la caduta dei re. Il giorno 12 gennaio segnerà l’epopea gloriosa della universale rigenerazione». L’appuntamento ai gendarmi reali era stato dato: una grande folla si radunò in Piazza Fieravecchia dando il via alla rivolta – e dando anche il nome alla piazza, oggi nota come Piazza Rivoluzione, uno dei ritrovi più conosciuti dai palermitani.

Rivolta Sette Mezzo
La rivoluzione di Palermo (12 gennaio 1848) – Sanesi

In un mese di scontri i rivoluzionari cacciarono fuori dall’isola i Borbone, rifiutarono la proposta di Re Ferdinando II di concedere una costituzione diversa da quella pretesa – quella del 1812 “aggiornata ai tempi” – e nominarono un governo provvisorio con a capo Ruggero Settimo. Il 25 marzo venne dichiarata la nascita dello Stato di Sicilia ed inaugurato il Parlamento e il primo di aprile fu la volta dell’adesione a una federazione di Stati Italiani. Ma fu una gigantesca illusione. Come scrive lo storico e politico Michele Amari (figlio di Emerico, un altro patriota palermitano) in una lettera a Mariano Stabile: «Siamo disertori! Disertori della causa da noi medesimi promossa… questa parola disertore mi suona come la tromba del giudizio agli orecchi di un credente». I due erano stati protagonisti agli albori dell’esperienza autonoma dello Stato di Sicilia e a distanza di poco più di un anno leggevano sui giornali europei di una popolazione, quella palermitana, insorta senza capi, lasciata quasi a se stessa, senza un governo stabile.

L’abbandono dei vertici e la “rivolta senza capo”

Le finanze del neonato stato siciliano si scontravano con la tragica realtà di un fondo “confederato” sostanzialmente vuoto a fronte di una rivoluzione che aveva avuto e continuava ad avere un costo altissimo da sostenere. Lo stesso Amari, nel periodo dell’autonomia ministro delle Finanze, definì il suo incarico a Palermo «remo pesantissimo e supplizio orrendo». Dopo appena sei mesi lo storico lascerà infatti la carica per unirsi agli agenti del Governo siciliano cercano – invano – l’aiuto delle potenze europee, restando in esilio a Parigi. La Pubblica sicurezza dell’Isola era ai minimi storici, la miseria continua a imperversare in un paradossale trionfo patriottico senza patria. Nell’entusiasmo generale, calpestando la dinastia Borbone, viene anche proclamato il nuovo re di Sicilia, il malcapitato Alberto Amedeo di Savoia, il quale però rispose con un sostanziale “no, grazie”.

Palermo 1849: la fine di un sogno?

I Borbone torneranno in Sicilia nel settembre del 1848 assediando Messina dopo una valorosa resistenza. Nel marzo del 1849 cadde anche Catania dopo aver resistito una settimana contro il reggimento borbonico composto da 16 mila unità. Palermo cadde a maggio, circondata per terra e per mare. Fu concessa l’amnistia a Ruggero Settimo e ad altri 43 patrioti che dovettero rifugiarsi a Malta. Molti altri fuggirono, chi a Genova, chi a Torino, o Parigi, o Londra, anche nomi eccellenti dell’intellighenzia isolana (come Crispi, Perez, La Farina, La Masa, Amari) che progetteranno per gli 11 anni successivi il ritorno in Sicilia e con una missione del tutto nuova e stavolta vittoriosa, anche se sanguinosa e controversa come non mai: sarebbe stata la Spedizione dei Mille, un’altra storia.

Gennaio 1848: Palermo accende l’Europa ultima modifica: 2020-01-13T12:12:16+01:00 da Daniele Monteleone

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